A proposito di licenziamento: vediamoci chiaro
Quando parliamo di licenziamento, le cose non sono mai semplici e di pronta risoluzione come possa sembrare all’inizio. Il licenziamento, infatti, colpisce la sfera più intima del lavoratore, esautorato dal proprio impiego e, spesso, costretto a riprendere in mano le redini della propria vita. Ma perché, quella del licenziamento, è considerata una delle materie più complesse del diritto del lavoro? Complici le riforme e le sempre più aggiornate pronunce giurisprudenziali, il tema del licenziamento è in continuo divenire, oggetto di modifiche, spesso anche di rilevante entità, che destabilizzano non poco la serenità del lavoratore.
Proprio in tema di lavoro a tempo indeterminato, in virtù della crisi economica e della sempre più scarsa competitività internazionale delle aziende italiane, a seguito dello Jobs Act sono venuti meno due dei capisaldi su cui si basava l’intera disciplina del licenziamento: l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e il concetto di intangibilità del posto di lavoro.Tutto ciò, se da un lato ha il pregio di rendere più snella e flessibile la riforma del diritto del lavoro, dall’altro, porta con sé una serie di problemi connessi proprio alla legittimità del licenziamento, soprattutto nel caso in cui il lavoratore non accetti un demansionamento.
Il rifiuto di svolgere mansioni inferiori
Se ci riferiamo a un licenziamento dovuto al rifiuto del lavoratore di svolgere mansioni inferiori, bisogna capire preliminarmente proprio cosa debba intendersi per “mansioni di tipo inferiore”. Un primo, valido aiuto può venire dal novellato primo comma dell’articolo 2103 del codice civile in cui si legge che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello d’inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
La ratio della norma – modificata dall’articolo 55 del Decreto Legislativo 20 febbraio 2015 di attuazione dello Jobs Act – appare piuttosto chiara, soprattutto in riferimento al licenziamento. Bisogna, innanzitutto, analizzare quale sia concretamente l’attività svolta dal lavoratore. In secondo luogo, bisognerà guardare al complesso delle qualifiche e delle mansioni così come inquadrate dai contratti collettivi di categoria e, infine, operare un opportuno bilanciamento tra le due fasi precedentemente illustrate. Fino a questo momento, invece, il lavoratore poteva essere solo destinato a quelle mansioni acquisite con il tempo o a quelle di pari livello, senza alcuna diminuzione nella retribuzione e senza alcuna variazione dei livelli d’inquadramento.
Le pronunce giurisprudenziali sul punto, infatti, vietavano qualsiasi tipo di “variazione in peius” a scapito del lavoratore, per cui le mansioni cui si fa riferimento, dovevano tener conto non solo delle abilità acquisite nel corso degli anni, ma anche aderenti al tipo di lavoro concretamente svolto. Il lavoratore, dunque, oggi può essere adibito a qualsiasi tipo di mansione purché rientrante nel medesimo livello di inquadramento e di retribuzione economica. Manca, invece, qualsiasi riferimento al principio di “equivalenza delle mansioni” e alle competenze professionali acquisite dal lavoratore.
La domanda, a questo punto, però diviene spontanea: cosa accade se il lavoratore non accetta di svolgere le nuove mansioni cui è destinato?
Licenziamento legittimo o illegittimo?
Ancora una volta, bisogna guardare alle più recenti pronunce giurisprudenziali in materia e, com’è facilmente intuibile, diverse sono le sentenze della Corte di Cassazione che hanno avuto modo di trattare questa spinosa questione. Partiamo dalla sentenza n. 1693 del 24 gennaio 2013 in cui si afferma che il rifiuto del lavoratore a essere adibito a svolgere mansioni inferiori può essere legittimo e giustificato dal principio di autotutela, purché tale rifiuto sia dettato dalla buona fede e sia conseguente a un comportamento illecito e discriminatorio del datore di lavoro.
In questo caso, l’assegnazione a una mansione inferiore che degeneri in una totale dequalificazione professionale, non può dar luogo ad alcun tipo di licenziamento, giacché l’inadempimento del lavoratore sarebbe da ascrivere solo al comportamento del datore di lavoro. In questo caso, laddove il lavoratore abbia già subito la conseguenza del licenziamento, avrebbe diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro. Di pari tenore anche la sentenza n. 1912 del 2017, secondo cui il rifiuto di svolgere mansioni inferiori, deve essere improntato al principio di autotutela, conforme a buona fede e a patto che il lavoratore abbia agito in modo proporzionato.
Secondo la Suprema Corte, però, tale giustificato rifiuto viene meno nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia continuato comunque a frequentare uno o più locali aziendali o si sia rivolto in modo arrogante, sprezzante o minaccioso nei confronti del datore. Va da sé, dunque, che se il lavoratore decide di presentarsi in azienda, rinuncia all’eccezione d’inadempimento e, pertanto, obbligato a portare a termine la prestazione lavorativa assegnata.
Di tutt’altro avviso, invece, la sentenza della Cassazione Sezione Lavoro n. 836 del 16.01.2018, secondo cui appare pienamente legittimo il licenziamento del prestatore di lavoro che, in modo arbitrario e in piena violazione degli obblighi lavorativi, non solo non abbia accettato di essere adibito a una mansione inferiore, ma si sia anche assentato ingiustificatamente dal posto di lavoro. Quindi, se il lavoratore può legittimamente rifiutarsi di svolgere mansioni che ritenga inferiori, purché ciò avvenga in buona fede e senza utilizzare comportamenti minacciosi o lesivi dell’autorità del datore di lavoro, lo stesso non può dirsi di un lavoratore che lasci il posto di lavoro, sospendendo, di fatto, l’attività lavorativa, senza adire preliminarmente il Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro.