Si può licenziare un lavoratore in malattia?
Quando parliamo di licenziamento, andiamo a toccare una delle questioni più complesse e delicate del diritto del lavoro, in virtù degli interessi protetti da tutelare contemperati alle esigenze del datore di lavoro. Nel caso della malattia del lavoratore, da cui deriva un’assenza prolungata dal posto di lavoro, il datore di lavoro può prendere alcuni opportuni accorgimenti, purché essi non vadano a ledere il diritto legittimo di astenersi dal lavoro per ragioni di malattia. Tendenzialmente, la legge stabilisce che il lavoratore in malattia non possa essere licenziato.
Esistono, però, due deroghe a tale affermazione e, pertanto, il lavoratore può essere licenziato se la sua assenza dal posto di lavoro supera la durata massima di quanto stabilito dal contratto collettivo oppure se, nonostante non si superi la predetta durata, dall’assenza del lavoratore sia derivata una situazione di precarietà e di grave pregiudizio ai danni dell’azienda. Ma come capire se sia stato superato il cosiddetto periodo di comporto?
Un valido aiuto per comprendere pienamente la disciplina sottesa al licenziamento ci viene fornito dal codice civile, in particolare dagli articoli 2110 e 2118. Se, infatti, l’articolo 2110 c.c., disciplinante l’infortunio, la malattia, il puerperio e la gravidanza, tratta di una sospensione momentanea del rapporto di lavoro, l’articolo 2118 c.c. si riferisce al recesso dal contratto a tempo indeterminato, concedendo a ciascuno dei contraenti di poter recedere anticipatamente dal contratto tra essi in precedenza stipulato, purché se ne dia un congruo preavviso, mancante il quale il recedente è tenuto a indennizzare l’altra parte nella misura della retribuzione che sarebbe comunque spettata per il preavviso.
Da una lettura eminentemente delle due norme si evince come il datore di lavoro abbia piena facoltà di recedere anticipatamente dal contratto a tempo indeterminato ex articolo 2118 c.c. solo se sia trascorso il tempo prescritto dalla legge. Questo periodo di comporto, quindi, non lascerebbe alcun margine al datore di lavoro che, prima facie,sembrerebbe privato del potere di licenziare un lavoratore in malattia. Per calcolare opportunamente il comporto, bisogna riferirsi all’anno solare, secondo quanto suggerito dai contratti collettivi di lavoro.
E, anche in questo caso, non si tratta di un periodo uguale per tutti i lavoratori. Se, infatti, la durata del comporto per gli impiegati è di 3 mesi se l’anzianità non supera i dieci anni e di 6 mesi se l’anzianità è superiore ai 10 anni, per gli operai bisogna guardare direttamente a quanto prescritto dalla contrattazione collettiva. Inoltre, secondo quanto esposto dalla Corte di Cassazione nella recente sentenza n.7676/2017, nell’ambito di applicazione e di valutazione del periodo di comporto, le regole del computo prescritte dagli articoli 2963 c.c. e 155 del codice di procedura civile, possono trovare applicazione solo in assenza di specifiche clausole contrattuali di diverso contenuto.
Il bilanciamento dei diritti nel caso di licenziamento per malattia
Come spesso accade in una materia così delicata e complessa, la legge tiene in debita considerazione gli interessi di entrambe le parti del rapporto del lavoro, accordando una maggiore tutela al lavoratore, considerata la parte più debole di tale rapporto.
Molto illuminanti in tal senso appaiono due diverse pronunce della Corte di Cassazione, una risalente al 2012 e l’altra al 2014. Se, infatti, la sentenza n. 1404/2012 stabilisce che le regole fissate all’articolo 2110 del codice civile in materia di assenza del lavoratore per malattia prolungata, giacché considerate speciali prevalgono sia sugli articoli 1256 e 1463 e 1464 c.c. sia sulla disciplina dettata per i licenziamenti individuali e vanno a limitare il potere di licenziamento da parte del datore di lavoro, la sentenza n. 1777 del 28 gennaio del 2014, al fine di evitare licenziamenti del tutto arbitrari, stabilisce che il datore di lavoro non può assolutamente ignorare il periodo di comporto, arrivando a licenziare il lavoratore e recedendo anticipatamente dal contratto, dovendo necessariamente contemperare le proprie esigenze e quelle del lavoratore assente per malattia, con la conseguenza di doversi addossare anche il rischio della malattia del proprio dipendente.
Da ciò, però, deriva che il dipendente malato può essere licenziato, anche nel periodo in cui si trova nella fase della convalescenza, laddove il datore di lavoro si trovi a fronteggiare una crisi aziendale, una ristrutturazione interna o, nel caso ben più grave di un licenziamento per motivi disciplinari, reso necessario da comportamenti scorretti del lavoratore, quale ad esempio non farsi trovare in casa al momento delle visite fiscali.
Il licenziamento per inefficienza: di cosa si tratta?
Del tutto rivoluzionaria, sempre in tema di licenziamento per malattia, la sentenza della Corte di Cassazione n. 12592/16 del 17/6/16 secondo cui il licenziamento è legittimo in caso di scarso rendimento del dipendente, dovuto alle prolungate assenze dal posto di lavoro, intervallate da sporadici ritorni in azienda.
Questa stretta sui lavoratori furbetti, solo in apparenza si pone in contrasto con il divieto di licenziamento per malattia. Se, infatti, la prestazione del lavoratore diventa sporadica se non addirittura occasionale, il danno recato all’azienda può essere potenzialmente anche molto grave, diventando un peso economico insostenibile per il datore di lavoro.
Quindi, in quest’ottica, le reiterate e prolungate assenze del lavoratore, vanno a violare le regole della diligente collaborazione cui si è obbligato il prestatore di lavoro, aprendo la strada a un licenziamento che, non solo non sarebbe discriminatorio, ma pienamente legittimo e giustificato, necessario per il datore di lavoro che voglia salvaguardare la propria azienda da comportamenti scorretti e contrari alla legge.